La verità nell’ombra

Luca Beatrice • 2013

Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affissarono sull’ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un  piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo calpestarla l’ombra mia.

Chi era più ombra di noi due? Io o lei?

Affrettai il passo per cacciarla sotto altri carri, sotto i piedi de’ viandanti, voluttuosamente. Una smania mala mi aveva preso, quasi adunghiandomi il ventre; alla fine, non potei più vedermi davanti quella mia ombra; avrei voluto scuotermela dai piedi. Mi voltai; ma ecco; l’avevo dietro, ora.

Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal

La questione identitaria è materia pirandelliana.

A tutti sarà capitato almeno una volta di trovarsi a passeggiare tranquillamente tra le vetrine del centro e di sbirciare quella nostra immagine riflessa. Qualche volta soddisfatti, altre in disappunto. Dando ragione allo scrittore siciliano, troppo spesso il riflesso di quello che crediamo di rappresentare non coincide con il nostro immaginario.

Pensando a un diverso esempio, ci sono momenti in cui, quando il sole stanco e in discesa proietta ombre lunghe sull’asfalto, cerchiamo tracce di verità in quei profili neri che non ci abbandonano mai, passo dopo passo. Mattia Pascal l’ombra di sé decide drammaticamente di eliminarla. La metafora riguarda la doppia vita del personaggio, costretto a costruirsi una nuova e fittizia identità. Torniamo all’annosa questione. Cos’è più vero, quello che noi vediamo o la nostra proiezione nel mondo?

I soggetti dipinti da Hannu Paluoso contengono il senso di tale domanda. Con il loro doppio riflesso cercano in un’ombra la prova del loro esistere. S’intrecciano il dentro e il fuori fuoco, assecondando la fascinazione dell’artista per i temi della memoria e del tempo.

Le ombre in Palosuo, oltre che oggettivare la presenza del soggetto in sé e per sé, si fanno metafora di un intervallo sospeso. Se gli attori dei quadri sembrano svanire dentro a un trattamento del colore alla Gerhard Richter, come vecchie fotografie sbiadite o esposte all’azione di acidi che ne asportano il colore, al contrario le loro ombre sono nette e definite. Dentro a uno specchio alla Dorian Gray, condensano lo spirito e vincono la natura transitoria.

Non è un caso che buona parte dei personaggi dipinti da Palosuo rimandano ai Quadri specchianti realizzati su lastra d’alluminio da Michelangelo Pistoletto dagli anni ’60 in poi, a cui arriva dopo aver reso sempre più riflettente il fondo nero dei precedenti dipinti. Come il maestro dell’Arte Povera, Palosuo include nel dipinto la dimensione temporale, astratta, di presente, passato e futuro. Le sue istantanee riguardano un tempo non definito: quello che sfugge nel colore dato a spatola e vibrante (presente), quello che resta, nitido, nell’ombra (passato) e quello che non si conosce (futuro) e che ancora deve trovare posto nella tela grezza, in attesa di essere dipinta.

I fiori, invece, appartengono invece a un universo più pop. Quelli di Andy Warhol o di Robert Mapplethorpe. Pittura (o fotografia) di genere, come il nudo, che ritorna sorprendentemente in molti artisti contemporanei, forse per quell’iconico contrasto semantico che risiede nella natura, tra morte e amore. In un mazzo di fiori si condensano eleganza e minaccia, verità e finzione, natura e ornamento. Vengono in mente le rose di Jeff Koons, i tulipani ancora di Richter, e poi i mazzi appesi al muro da Hans-Peter Feldmann con tanto di ombre che disegnano un pattern sul muro.

I frames di Palosuo, che si tratti di rose, gigli, tulipani, coppie di anziani, giovani donne solitarie, uomini in abiti eleganti, sono al crocevia tra fotografia e cinema, tra teatralità scenografica e pittura pura. Attraverso l’uso sfumato del movimento, il gioco di profondità e verità impartito al supporto, l’alternanza di pieni e vuoti, di positivo e negativo, di realtà e finzione, e l’utilizzo della luce come elemento non solo compositivo, ma come soggetto vero e proprio, Palosuo riflette una complessità semantica che rigenera la pittura del suo vecchio statuto emozionale e poetico.

All’artista finlandese sta a cuore il lavoro ben fatto ed è per questo che le sue tele hanno il sapore di qualcosa di prezioso, per nulla casuale, che fa seguito a un processo di evoluzione stilistica nella scelta delle tecniche e dei supporti. Il colore dato a spatola, come quella scia tipica della tecnica fotografica del panning, l’uso dell’olio impastato con componenti al magnesio per preservare la fluidità del colore, della polvere di ferro che altera i toni cromatici tramite l’azione di un ossidante, e poi la scelta degli acrilici polimaterici più resistenti e duttili dell’olio. Per non parlare della selezione oculata dei supporti e la loro precisa preparazione: la juta grezza prende il posto della più raffinata tela di lino, viene usata al rovescio, altre volte trattata, altre ancora sostituita da panni di velluto o sacchi di caffè al naturale con tanto di stampe e timbrature.

Nella conoscenza della tecnica Palosuo ha pochi rivali. La sua ricerca mira al raggiungimento di un equilibrio alchemico tra soggetto e trattamento materico. È questo il movente di una pittura che, nel ripetersi, appare sempre diversa. Presi in prestito da un’iconografia tutta contemporanea, i suoi temi – fiori, alberi, uomini - sono parte di quella “foresta” d’immagini che – come segnala l’artista – “ogni finlandese porta dentro di sé”.

Hannu Palosuo è nato a Helsinski nel 1966 ma ha studiato arte all’ombra dei Fori Imperiali e del Colosseo. Dopo l’Accademia si stabilisce definitivamente a Roma, dove la sua fama da pittore “dei fiori e dei boschi” ha subito il naturale fascino derivato da quell’origine nordeuropea che continua a sopravvivere nel proprio immaginario visivo. Al caldo sole mediterraneo preferisce una gamma cromatica dai toni più freddi e una sintesi composta dei soggetti. Come accade nella musica dei grandi compositori classici scandinavi, da Jean Sibelius a Edvard Grieg, Hannu Palosuo investe i suoi personaggi di una luce spettrale, mistica a volte, che li trasporta immediatamente in un panorama estatico e immobile. Gli abitanti dei suoi quadri sono catturati dentro a fermo immagine di un’azione che è appena accaduta o che sta per accadere. Sono cinematografici e, se è vero che il cinema è per sua definizione costruito su una una molteplicità di ombre, anche i personaggi di Palosuo vivono condensati dentro a proiezioni geometriche che ne catturano la loro verità assoluta. Come nel suggestivo Dracula di Francis Coppola, l’ombra sembra manifestare il lato più vero del protagonista in carne e ossa. Allo stesso modo gli attori di Palosuo sfumano in una transitorietà che ne altera i contorni e solo nel loro spettro trovano reale definizione. L’ombra è garante della manifestazione visibile ed elementare dell’oggetto che proietta. Il suo approccio non è diverso da buona parte della pittura avanguardistica del Novecento. Dalle teorie sulla luce proposte dall’Impressionismo, tutti gli “ismi” che ne sono seguiti hanno modificato il comune modo d’intendere la prospettiva e la proiezione dei corpi rappresentati. L’ombra smascherava qualcosa d’indicibile, di freudiano, di altrimenti segreto. Si pensi ad esempio alle ombre portate dei surrealisti paesaggi di de Chirico, presenze scisse da qualsiasi soggetto proiettante, o alle opere di altri pittori nordeuropei, dall’irlandese Francis Bacon al norvegese Edvard Munch. In Pubertà di Munch, una giovane ragazza seduta sul letto proietta dietro di sé una forma innaturale, carica di presagi per nulla puerili e fanciulleschi.

Anche in Palosuo la chiave di lettura dei suoi dipinti è qui. La verità è in quelle ombre che moltiplicano e rispecchiano il tempo del racconto. Non lasciamoci ingannare dal primo piano. Quello sfuma, ciò che resta, è la sua immagine riflessa.

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Hannu Palosuo: La reminiscenza di essere umano